A. Nicolotti
I Templari e la Sindone. Storia di un falso,
Salerno Editrice, Roma 2011 (Collana “Aculei”).
Recensione di
Mons. Armando Rolla
Professore (f.r.) di Antico e Nuovo Testamento presso la Facoltà Teologica dell'Italia meridionale, sezione S. Tommaso (Napoli) e presso il Seminario di Benevento.
«Questo non è l’ennesimo libro che descrive la Sindone. Non è uno studio che pretende di dimostrarne l’autenticità o la falsità. Non è un libro di devozione, né di dissacrazione. Vuol solo essere un libro di storia, scritto senza pregiudizi» (p.12). Dei tredici cosiddetti “secoli bui” della Sindone, che vanno dalla sua presunta comparsa nella Gerusalemme del secolo I al suo arrivo nella Francia del Trecento, questo libro s’occupa solo dei 150 anni che vanno dal sacco di Costantinopoli ad opera della IV Crociata (1204) alla comparsa della reliquia nella piccola chiesa di Lirey, nella seconda metà del XIV secolo. In modo più specifico l’autore vuole sottoporre al vaglio del rigoroso metodo storico-critico l’ipotesi proposta dall’inglese Ian Wilson nel 1978, che la storica romana Barbara Frale ha divulgato soprattutto nei suoi due recentissimi libri I Templari e la sindone (Il Mulino, Bologna 2009) e La sindone di Gesù Nazareno (ivi, 2009). Secondo quest’ipotesi la Sindone di Torino coinciderebbe con il Mandylion di Edessa che i Templari avrebbero trafugato nel saccheggio di Costantinopoli (1204) e dovrebbe essere collegata con l’idolo che i cavalieri del Tempio furono accusati di venerare durante i processi ai loro danni tra il 1303 e il 1314.
Sostanzialmente il primo capitolo (“La Sindone di Torino e la sua comparsa in occidente”) scalza la testimonianza del crociato fiammingo Robert de Clari su cui è fondata l’ipotesi costantinopolitana della Sindone torinese. Secondo questo crociato la Sindone veniva esposta a Costantinopoli ogni venerdì nella chiesa delle Blacherne. Nicolotti dimostra che questa esposizione non poteva avvenire nella suddetta chiesa, dedicata alla Madonna e alle sue reliquie, e che il Mandylion, nel caso dovesse essere identificato con la Sindone (cosa impossibile, per l’autore), era conservato nella cappella costantinopolitana del Faro, vicino alla sala del trono nel palazzo reale, dove erano custodite tutte le reliquie della Passione; da qui, in seguito, il re francese Luigi IX le comprò per collocarle nella Sainte-Chapelle di Parigi da lui costruita per accoglierle.
Il capitolo secondo (“Il misterioso idolo dei Templari”) mostra l’infondatezza dell’accusa lanciata contro i Templari di venerare un idolo nei loro riti segreti. A parte il sospetto che le confessioni degli inquisiti, su cui si fondano queste accuse, possano essere state estorte con la tortura, l’idolo dei Templari è da loro descritto in modo molto diverso, segno che non ne avevano una conoscenza molto precisa. Secondo le loro confessioni si sarebbe trattato di «teste di legno o di metallo, immagini scolpite o dipinte, idoli dell’altezza di un cubito o piccole immagini, vere teste di cadavere, di maschio o di femmina; qualche volta con la barba e il copricapo tipico di un Templare, altre volte senza, con una, due, tre o quattro facce, talora di aspetto terrificante e talora no, secondo alcuni capaci di parlare, accompagnate o meno da gatti neri e streghe ammantate, dotate o meno di corna, di aspetto demoniaco o somiglianti a un santo, per qualcuno idoli islamici e per altri reliquiari» (p.42). Nel caso in cui quest’idolo multiforme debba essere identificato con la Sindone, come sostengono alcuni sindonologi, il rito imposto ai novizi del Templari, secondo Nicolotti, sarebbe chiaramente una cosa assurda perché «al Templare si richiederebbe di baciare l’immagine dei piedi insanguinati del Cristo morto, costringendolo contemporaneamente a sputare sull’immagine del medesimo Cristo in croce» (p.71).
Il capitolo terzo (“La Sindone tra i Templari”) tratta svariati argomenti complementari addotti da molti sindonologi a supporto della ipotesi Wilson-Frale. Secondo Nicolotti i Templari non avrebbero posto nel fortilizio di Saphed un idolo barbuto riproducente il volto della Sindone, ma semplicemente una statua di san Giorgio; i sigilli usati dai dignitari dell’Ordine per autenticare documenti e missive non offrirebbero il volto della Sindone e, ancor meno, l’immagine dell’idolo che i Templari erano accusati di adorare, e il pannello di Templecombe sarebbe privo di segni di riconoscimento, perciò nulla ci autorizza a pensare che esso sia il viso di Gesù. Parimenti il miniaturista del Codice Pray, conservato nella Biblioteca Nazionale di Budapest, non avrebbe riprodotto il telo della Sindone e difficilmente avrebbe preferito rappresentare «quattro piccole bruciature del telo piuttosto che l’immagine del Cristo e del suo sangue» (p.88). A sua volta la Cronaca di Saint-Denis, studiata nella sua vera fonte, parla di «un oggetto tridimensionale in forma di testa, ricoperto di pelle umana e con la cavità degli occhi riempite da due escharboucles, cioè da due carbuncoli» (p.94), cosa che ha nulla a che fare con la Sindone. Infine alla Frale, che giustifica il silenzio dei Templari inquisiti sulla vera natura dell’idolo-Sindone con il timore di perdere il possesso della preziosa reliquia e di essere accusati di appartenere alla eresia catara, Nicolotti ribatte: «Risulta davvero difficile credere che tutti abbiano deliberatamente omesso di spiegare in che cosa consistesse quel benedetto idolo, rinunciando in tal modo a stornare da se stessi e dall’Ordine l’accusa di idolatria al solo scopo di mantenere un inspiegabile silenzio sul possesso di una Sindone che, comunque, non avrebbero potuto più conservare» (p.98).
Il capitolo quarto (“Templari, crociati, vescovi e imperatori”) smonta i vari tentativi fatti dai sindonologi di spiegare come la Sindone sia caduta in mano ai Templari. La lettera del 1205 di Teodoro Comneno Ducas a papa Innocenzo III, che proverebbe la presenza della Sindone ad Atene, sarebbe un falso, secondo Nicolotti, il quale si rifà a due bizantinisti di vaglia. Così, per provare la presenza della Sindone ad Atene non è sufficiente la notizia che Othon de la Roche insediò una comunità monastica nel tempio di Apollo a Dafni, da lui trasformato in una chiesa mariana cui impose lo stesso nome della chiesa nella quale il crociato Robert de Clari vide esposta la Sindone a Costantinopoli prima del saccheggio del 1204, soprattutto se, come dimostra Nicolotti, la testimonianza di questo crociato non merita credito. A chi sostiene che Othon de la Roche portò la Sindone da Atene in Francia facendola poi pervenire per via di parentela a Geoffroy de Charny, il suo primo proprietario accertato, Nicolotti mostra che questa parentela non sussiste, in base a tavole genealogiche puntigliosamente da lui ricostruite ed esibite in appendice al libro, e che il cofanetto di legno conservato nel castello dei De la Roche a Ray-sur-Saone non poteva contenere la Sindone. Neppure può essere accolta l’ipotesi secondo cui Amaury de la Roche, presunto parente di Othon I, avrebbe trasmesso la Sindone a quest’ultimo, né l’altra ipotesi secondo cui Geoffroy de Charny sarebbe un Templare, imparentato al Geoffroy de Charnay che venne bruciato sul rogo assieme al Gran Maestro Jacques de Molay.
Non c’è bisogno di dire che il libro qui presentato offre molto di più dello scarno riassunto qui fornito. Scorrendolo, il lettore è favorevolmente impressionato dalla puntigliosità con cui l’autore ha approfondito gli argomenti trattati e ha verificato di persona tutta la documentazione impiegata dai sindonologi supportandola anche con tavole che ne forniscono la riproduzione fotografica, e con note bibliografiche che coprono ben ventotto pagine. Il minuzioso controllo di tutta la documentazione sindonologica, che deve essergli costato una fatica non indifferente, lo porta a concludere in modo piuttosto negativo. Infatti scrive nella conclusione: «Il risultato dell’analisi storica, nel complesso, è stato estremamente deludente: di tutto il castello argomentativo delle pubblicazioni che sono state prese in esame, nemmeno una pietra ha resistito al vaglio dell’esame critico. Approssimazioni, errori, anacronismi, fonti fasulle, dimostrazioni fallaci e cascate di deduzioni tutte avventurose si accompagnano a vere e proprie contraffazioni dei testi» (p.138). Manco a dirlo, sono i due suddetti libri di Barbara Frale a uscirne i più malconci!
I Templari e la Sindone. Storia di un falso,
Salerno Editrice, Roma 2011 (Collana “Aculei”).
Recensione di
Mons. Armando Rolla
Professore (f.r.) di Antico e Nuovo Testamento presso la Facoltà Teologica dell'Italia meridionale, sezione S. Tommaso (Napoli) e presso il Seminario di Benevento.
«Questo non è l’ennesimo libro che descrive la Sindone. Non è uno studio che pretende di dimostrarne l’autenticità o la falsità. Non è un libro di devozione, né di dissacrazione. Vuol solo essere un libro di storia, scritto senza pregiudizi» (p.12). Dei tredici cosiddetti “secoli bui” della Sindone, che vanno dalla sua presunta comparsa nella Gerusalemme del secolo I al suo arrivo nella Francia del Trecento, questo libro s’occupa solo dei 150 anni che vanno dal sacco di Costantinopoli ad opera della IV Crociata (1204) alla comparsa della reliquia nella piccola chiesa di Lirey, nella seconda metà del XIV secolo. In modo più specifico l’autore vuole sottoporre al vaglio del rigoroso metodo storico-critico l’ipotesi proposta dall’inglese Ian Wilson nel 1978, che la storica romana Barbara Frale ha divulgato soprattutto nei suoi due recentissimi libri I Templari e la sindone (Il Mulino, Bologna 2009) e La sindone di Gesù Nazareno (ivi, 2009). Secondo quest’ipotesi la Sindone di Torino coinciderebbe con il Mandylion di Edessa che i Templari avrebbero trafugato nel saccheggio di Costantinopoli (1204) e dovrebbe essere collegata con l’idolo che i cavalieri del Tempio furono accusati di venerare durante i processi ai loro danni tra il 1303 e il 1314.
Sostanzialmente il primo capitolo (“La Sindone di Torino e la sua comparsa in occidente”) scalza la testimonianza del crociato fiammingo Robert de Clari su cui è fondata l’ipotesi costantinopolitana della Sindone torinese. Secondo questo crociato la Sindone veniva esposta a Costantinopoli ogni venerdì nella chiesa delle Blacherne. Nicolotti dimostra che questa esposizione non poteva avvenire nella suddetta chiesa, dedicata alla Madonna e alle sue reliquie, e che il Mandylion, nel caso dovesse essere identificato con la Sindone (cosa impossibile, per l’autore), era conservato nella cappella costantinopolitana del Faro, vicino alla sala del trono nel palazzo reale, dove erano custodite tutte le reliquie della Passione; da qui, in seguito, il re francese Luigi IX le comprò per collocarle nella Sainte-Chapelle di Parigi da lui costruita per accoglierle.
Il capitolo secondo (“Il misterioso idolo dei Templari”) mostra l’infondatezza dell’accusa lanciata contro i Templari di venerare un idolo nei loro riti segreti. A parte il sospetto che le confessioni degli inquisiti, su cui si fondano queste accuse, possano essere state estorte con la tortura, l’idolo dei Templari è da loro descritto in modo molto diverso, segno che non ne avevano una conoscenza molto precisa. Secondo le loro confessioni si sarebbe trattato di «teste di legno o di metallo, immagini scolpite o dipinte, idoli dell’altezza di un cubito o piccole immagini, vere teste di cadavere, di maschio o di femmina; qualche volta con la barba e il copricapo tipico di un Templare, altre volte senza, con una, due, tre o quattro facce, talora di aspetto terrificante e talora no, secondo alcuni capaci di parlare, accompagnate o meno da gatti neri e streghe ammantate, dotate o meno di corna, di aspetto demoniaco o somiglianti a un santo, per qualcuno idoli islamici e per altri reliquiari» (p.42). Nel caso in cui quest’idolo multiforme debba essere identificato con la Sindone, come sostengono alcuni sindonologi, il rito imposto ai novizi del Templari, secondo Nicolotti, sarebbe chiaramente una cosa assurda perché «al Templare si richiederebbe di baciare l’immagine dei piedi insanguinati del Cristo morto, costringendolo contemporaneamente a sputare sull’immagine del medesimo Cristo in croce» (p.71).
Il capitolo terzo (“La Sindone tra i Templari”) tratta svariati argomenti complementari addotti da molti sindonologi a supporto della ipotesi Wilson-Frale. Secondo Nicolotti i Templari non avrebbero posto nel fortilizio di Saphed un idolo barbuto riproducente il volto della Sindone, ma semplicemente una statua di san Giorgio; i sigilli usati dai dignitari dell’Ordine per autenticare documenti e missive non offrirebbero il volto della Sindone e, ancor meno, l’immagine dell’idolo che i Templari erano accusati di adorare, e il pannello di Templecombe sarebbe privo di segni di riconoscimento, perciò nulla ci autorizza a pensare che esso sia il viso di Gesù. Parimenti il miniaturista del Codice Pray, conservato nella Biblioteca Nazionale di Budapest, non avrebbe riprodotto il telo della Sindone e difficilmente avrebbe preferito rappresentare «quattro piccole bruciature del telo piuttosto che l’immagine del Cristo e del suo sangue» (p.88). A sua volta la Cronaca di Saint-Denis, studiata nella sua vera fonte, parla di «un oggetto tridimensionale in forma di testa, ricoperto di pelle umana e con la cavità degli occhi riempite da due escharboucles, cioè da due carbuncoli» (p.94), cosa che ha nulla a che fare con la Sindone. Infine alla Frale, che giustifica il silenzio dei Templari inquisiti sulla vera natura dell’idolo-Sindone con il timore di perdere il possesso della preziosa reliquia e di essere accusati di appartenere alla eresia catara, Nicolotti ribatte: «Risulta davvero difficile credere che tutti abbiano deliberatamente omesso di spiegare in che cosa consistesse quel benedetto idolo, rinunciando in tal modo a stornare da se stessi e dall’Ordine l’accusa di idolatria al solo scopo di mantenere un inspiegabile silenzio sul possesso di una Sindone che, comunque, non avrebbero potuto più conservare» (p.98).
Il capitolo quarto (“Templari, crociati, vescovi e imperatori”) smonta i vari tentativi fatti dai sindonologi di spiegare come la Sindone sia caduta in mano ai Templari. La lettera del 1205 di Teodoro Comneno Ducas a papa Innocenzo III, che proverebbe la presenza della Sindone ad Atene, sarebbe un falso, secondo Nicolotti, il quale si rifà a due bizantinisti di vaglia. Così, per provare la presenza della Sindone ad Atene non è sufficiente la notizia che Othon de la Roche insediò una comunità monastica nel tempio di Apollo a Dafni, da lui trasformato in una chiesa mariana cui impose lo stesso nome della chiesa nella quale il crociato Robert de Clari vide esposta la Sindone a Costantinopoli prima del saccheggio del 1204, soprattutto se, come dimostra Nicolotti, la testimonianza di questo crociato non merita credito. A chi sostiene che Othon de la Roche portò la Sindone da Atene in Francia facendola poi pervenire per via di parentela a Geoffroy de Charny, il suo primo proprietario accertato, Nicolotti mostra che questa parentela non sussiste, in base a tavole genealogiche puntigliosamente da lui ricostruite ed esibite in appendice al libro, e che il cofanetto di legno conservato nel castello dei De la Roche a Ray-sur-Saone non poteva contenere la Sindone. Neppure può essere accolta l’ipotesi secondo cui Amaury de la Roche, presunto parente di Othon I, avrebbe trasmesso la Sindone a quest’ultimo, né l’altra ipotesi secondo cui Geoffroy de Charny sarebbe un Templare, imparentato al Geoffroy de Charnay che venne bruciato sul rogo assieme al Gran Maestro Jacques de Molay.
Non c’è bisogno di dire che il libro qui presentato offre molto di più dello scarno riassunto qui fornito. Scorrendolo, il lettore è favorevolmente impressionato dalla puntigliosità con cui l’autore ha approfondito gli argomenti trattati e ha verificato di persona tutta la documentazione impiegata dai sindonologi supportandola anche con tavole che ne forniscono la riproduzione fotografica, e con note bibliografiche che coprono ben ventotto pagine. Il minuzioso controllo di tutta la documentazione sindonologica, che deve essergli costato una fatica non indifferente, lo porta a concludere in modo piuttosto negativo. Infatti scrive nella conclusione: «Il risultato dell’analisi storica, nel complesso, è stato estremamente deludente: di tutto il castello argomentativo delle pubblicazioni che sono state prese in esame, nemmeno una pietra ha resistito al vaglio dell’esame critico. Approssimazioni, errori, anacronismi, fonti fasulle, dimostrazioni fallaci e cascate di deduzioni tutte avventurose si accompagnano a vere e proprie contraffazioni dei testi» (p.138). Manco a dirlo, sono i due suddetti libri di Barbara Frale a uscirne i più malconci!